Un piccolo terremoto finanziario si è registrato stamattina in Asia, quando è giunta la notizia che la People’s Bank of China (PBoC), la banca centrale di Pechino, ha tagliato ancora una volta quest’anno il cosiddetto “RRR”, ossia il “Reserve Ratio Rate”, il coefficiente di riserva obbligatoria imposto alle banche nazionali, di 100 punti base, portandolo al 14,50% per le grandi e al 12,50% per le minori. Si stima che la misura libererà liquidità per 750 miliardi di yuan, pari a circa 105 miliardi di dollari. Di cosa si tratta? In Cina, come altrove, l’istituto centrale fissa riserve minime di liquidità, che le banche devono mantenere mediamente nell’anno per fronteggiare senza tensioni il loro fabbisogno finanziario ordinario. Le banche tipicamente sono solite accantonare anche una quantità maggiore di liquidità, rispetto ai requisiti legali, qualora ritenessero di poterne avere bisogno. Abbassando dell’1% il coefficiente minimo, vengono resi disponibili per il credito più di 100 miliardi di dollari, qualcosa come quasi l’1% del pil cinese. Denaro, che dovrebbe finire nei bilanci delle imprese e nelle tasche delle famiglie in Cina, rispettivamente per finanziare investimenti e acquisti di beni durevoli.
In teoria, una buona notizia per l’economia nazionale, se non fosse che ciò tenderà a sostenere l’azzardo del settore bancario, che già nell’ultimo decennio ha prestato sin troppo denaro alle imprese, in particolare, spesso per finanziare progetti faraonici e persino non remunerativi. Pechino ha assecondato con una politica monetaria ultra-espansiva tale spinta al credito sin dal 2009, anno in cui dovette fronteggiare il rischio di contagio dal resto del mondo avanzato, quando esplodeva la gravissima crisi finanziaria planetaria.
La reazione sui mercati è stata contrariata. La Borsa di Shanghai ha chiuso la seduta con un crollo azionario del 3,72%, mentre lo yuan scambiava nel tardo pomeriggio odierno a quasi il -1%, a ridosso di 7 contro il dollaro, ampliando le perdite di quest’anno al 6%. Come mai? Anzitutto, perché un’iniezione di ulteriore liquidità non farebbe che impattare negativamente sul tasso di cambio, traducendosi in un abbassamento dei tassi di mercato interni e, quindi, in un’accelerazione della fuga dei capitali già in atto, come segnala proprio l’indebolimento dello yuan negli ultimi mesi.
Il fatto, poi, che la PBoC abbia sentito il dovere di tagliare l’RRR per la terza volta quest’anno sarebbe di per sé un indizio forte delle preoccupazioni montanti a Pechino sulla crescita cinese. E, in effetti, i dazi imposti sull’amministrazione Trump su centinaia di miliardi di dollari di esportazioni dalla Cina inizierebbero a farsi sentire. A luglio, la crescita dell’export ha segnato un rallentamento e cosa ancora più preoccupante è che abbiano iniziato a ridursi notevolmente i tassi di crescita degli investimenti in yuan, che ad oggi hanno rappresentato una quota notevole dell’economia cinese, fin quasi la metà del pil, percentuale doppia rispetto a quella media vigente tra le economie emergenti.
In sostanza, la Cina si regge su una montagna di investimenti a dir poco eccessivi e ormai da anni insostenibili. Essi sono serviti in passato certamente a foraggiare lo sviluppo dell’economia, ma con la conseguenza che il rapporto tra il debito totale e il pil è letteralmente esploso negli ultimi anni, arrivando intorno al 270%. Le sole esposizioni delle imprese, il debito corporate, equivale a qualcosa come il 170% del pil, una percentuale inusitata altrove. E si consideri un altro dato: gli investimenti sono una componente della domanda nell’immediato, ma nel tempo si trasformano in una crescita della produzione. Ora, investimenti così elevati sono stati sinora sostenuti per incrementare di anno in anno la produzione, assorbita non tanto dai consumi domestici, relativamente ancora bassi e inferiori al 40% del pil contro il 68% degli USA, quanto dalle esportazioni.
E qui giocano un ruolo preoccupante i dazi americani, perché è evidente che colpendo il Made in China, le merci cinesi troveranno maggiori difficoltà a continuare a penetrare il loro principale mercato di sbocco, con la conseguenza che gli eccessi produttivi o dovranno essere assorbiti dai consumi interni o comporteranno un tracollo dell’economia, che si avviterebbe in una spirale recessiva e deflattiva, viste le cifre in gioco. Da anni, il governo cinese si rende conto che il livello degli investimenti sia diventato insostenibilmente alto e negli ultimi tempi le direttive erano state chiare: sgonfiare la bolla del credito. Tuttavia, dalle parole ai fatti c’è da salvaguardare la pace sociale. Un “credit crunch” avrebbe effetti devastanti sull’economia domestica e allontanerebbe la strategia di lungo termine, che consiste nel trasformare la Cina da un’economia perlopiù esportatrice a una più avanzata e fondata sulla domanda interna.
La tensione sui mercati si spiega anche con la paura che la mossa cinese possa irrigidire le posizioni della Casa Bianca, con il presidente Donald Trump a trovare in essa la conferma della volontà di Pechino di competere sul piano commerciale svalutando il cambio. Se così fosse, la retorica sui dazi rischia di surriscaldarsi e seguita da un’escalation di tariffe doganali disastrosa per il commercio mondiale. E aldilà delle intenzioni delle istituzioni cinesi, l’allentamento della politica monetaria incoraggerà i deflussi finanziari, indebolendo lo yuan e parzialmente neutralizzando i dazi americani imposti sulle merci cinesi.
E andando oltre alle dispute tra le prime due economie mondiali, come si può immaginare che la cura a un eccesso di prestiti (debiti) possa curarsi ricorrendo a ulteriore debiti? La qualità degli investimenti effettuati è andata diminuendo con il tempo, mentre a crescere sono i casi di default sull’obbligazionario, consentiti ormai da Pechino per introdurre un minimo di disciplina di mercato. Anche i crediti a rischio in pancia alle banche lievitano, pur rimanendo ancora ufficialmente a livelli molto contenuti. Si consideri che, al netto del debito pubblico, parliamo di una montagna di 25.000 miliardi di dollari di passività private, qualcosa come più del doppio del pil dell’Eurozona o il 120% del pil americano, nonché il 30% di quello mondiale. Insomma, in Cina c’è molto in gioco e per uscire da una spirale tendenzialmente catastrofica il governo ipotizza una politica fiscale anch’essa espansiva, con tagli alle tasse per 1.300 miliardi di dollari, circa l’1% del pil. E anche questa misura si tradurrà in un aumento del debito, seppure quello pubblico qui sia inferiore al 50% del pil. Comunque la si giri, ci saranno più debiti in Cina, quando già ce ne stanno troppi. Ecco perché i mercati finanziari stamattina hanno tremato.