Questa settimana per il mercato sarà un evento scontato il board della Federal Reserve, che quasi certamente alzerà i tassi di riferimento negli USA di altri 25 punti base, portandoli nel range 2,00-2,25%. Sarebbe il terzo per quest’anno, ma se ne prevede un quarto entro dicembre, quando verosimilmente i tassi americani saliranno al 2,50%. Per l’anno prossimo, invece, ci si aspetta una stretta monetaria molto meno vigorosa, magari segnata da 1-2 ritocchi all’insù al massimo. Stando agli stessi “dot plots” della Fed, il tasso “neutrale” sarebbe stimato tra il 2,50% e il 3,00%, ossia dopo il 2018 vi sarebbe poco spazio per la prosecuzione della stretta negli USA.
Per tasso neutrale s’intende quel livello a cui l’economia non viene né stimolata e né colpita. Per questo, la Fed a ogni appuntamento continua a ripetere che la sua politica monetaria resta “accomodante”, in quanto i tassi risulterebbero ancora fissati a un livello considerato di stimolo per il pil USA. Da un punto di vista reale, poi, cioè al netto dell’inflazione, i tassi sono negativi. La crescita tendenziale dei prezzi, infatti, è salita sopra il 2% in America negli ultimi mesi e ciò significa che hanno superato il livello nominale degli interessi applicati dalla banca centrale sui prestiti alle banche a stelle e strisce.
Dunque, i “falchi” in seno al board avrebbero buone ragioni per reclamare una stretta più decisa da qui ai prossimi trimestri, respingendo al mittente le accuse del presidente Donald Trump di colpire così la crescita economica con tassi che continuano a salire. Non sono in pochi, in verità, sia nel board che tra gli analisti a credere che i tassi debbano essere alzati a un livello leggermente restrittivo, ossia poco sopra il livello stimato naturale, dopo anni di allentamento monetario senza precedenti.
Eppure, l’idea che i tassi vengano portati verso l’alto trova investitori e politici abbastanza preoccupati. Questa settimana, i rendimenti decennali dei Treasuries sono saliti decisamente sopra il 3%, ai massimi dal 2011. In termini reali, poca roba, specie considerando che prima della crisi nel 2008 si aggiravano in area 4% e senza che nessuno nutrisse timori sul loro livello. La verità è che, nonostante una crescita economica sopra il 3% e il raggiungimento della piena occupazione, serpeggia la paura dentro e fuori l’America per la stretta della Fed.
I motivi sono diversi. Il debito pubblico americano, che prima della crisi si attestava intorno al 60% del pil, adesso è salito sopra il 100% e al netto dei titoli in mano alle istituzioni americane, tra cui la stessa Fed, esistono qualcosa come 16.000 miliardi di dollari di Treasuries tra i piccoli e grandi investitori nazionali e stranieri. L’1% di rendimento medio in più equivale a maggiori interessi per lo stato per 160 miliardi all’anno, circa lo 0,8% del pil, quando già quest’anno il deficit fiscale federale dovrebbe salire sui 900 miliardi e tendere l’anno prossimo ai 1.000 miliardi. La domanda che in molti si pongono è la seguente: se già con un’economia così in salute i conti pubblici languono, cosa accadrà quando dovesse arrivare una recessione? Non è che per la prima volta da qui a qualche anno davvero il mondo inizi a perdere fiducia sulla sostenibilità del debito a stelle e strisce?
E allora, considerando che l’inflazione resti debole presso la prima economia mondiale, ossia di poco superiore al target dopo 5 anni trascorsi ben al di sotto di esso, perché il governatore Jerome Powell dovrebbe continuare ad alzare i tassi? Per la stessa ragione per la quale Mario Draghi dovrà farlo alla BCE da qui ad un anno, dopo avere ritirato gli stimoli monetari per l’Eurozona: bisogna dotarsi di strumenti per prepararsi alla prossima crisi.
Il ragionamento è questo: se e quando arriverà una nuova recessione, le banche centrali dovranno reagire allentando le rispettive politiche monetarie, tagliando i tassi e forse varando nuove misure non convenzionali. Tuttavia, cosa potrebbero fare se si ritrovassero già con tassi bassi o azzerati e stimoli ancora in corso? L’efficacia dei loro provvedimenti dipende dalla capacità di segnalare ai mercati una riduzione del costo del denaro, così da indurre le imprese a investire, le famiglie a consumare e le banche a prestare denaro. Se, però, nessuno si attendesse alcuna svolta reale, gli istituti disporrebbero di armi spuntate per combattere la crisi, finendo per aggravare eventuali minacce alla stabilità dei prezzi verso il basso.
Ed ecco la ragione per cui la Fed, prima di terminare il ciclo rialzista, porterà i tassi intorno al 3%, pur temendo un simile livello. Ecco anche perché la BCE inizierà ad alzare i suoi tassi pur avendo giustificazioni teoriche per rinviare la stretta, tra cui il rallentamento della crescita economica in atto nell’Eurozona e un’inflazione di fondo inferiore al target. Bisogna correre ad armarsi di pistole, fionde e pietre da scagliare contro il nemico al suo arrivo, altrimenti non resterà che alzare le mani in segno di resa.