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Home Attualità

Perché i BTp rischiano di essere tossici per l’euro e impensieriscono Draghi

Giampiero Guadagni by Giampiero Guadagni
Agosto 21, 2018
in Attualità, Economia, Europa, Finanza, Investimenti, Mondo
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btp euro draghi
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Finalmente un po’ di respiro oggi per i nostri titoli di stato, che vedono scendere decisamente i rendimenti sull’annuncio di Moody’s di un rinvio entro la fine di ottobre della decisione sul rating, oggi pari a “Baa2”. L’agenzia, prima di esprimersi in merito, vorrà verificare cosa il governo Conte metterà nero su bianco nella prossima legge di Stabilità, banco di prova per mercati e analisti. In quell’occasione, la maggioranza giallo-verde dovrà segnalare la sua capacità di tenere fede alle promesse elettorali senza compromettere la stabilità dei conti pubblici. Esercizio piuttosto difficile, visto che tra stop all’aumento dell’IVA, revisione della legge Fornero, avvio del taglio delle tasse e del reddito di cittadinanza, non da ultimo pure della riduzione delle accise sul carburante e il lancio di un piano per gli investimenti pubblici, sarebbero necessarie risorse per decine di miliardi di euro, troppe per un’economia in stagnazione e senza provvedere al taglio della spesa pubblica o a trovare nuove entrate.

La crisi dei BTp è piuttosto evidente ed è esplosa dalla metà di maggio, quando Lega e Movimento 5 Stelle hanno formalmente avviato le trattative per la formazione del nuovo governo. I rendimenti a 10 anni sono passati dall’1,80% a oltre il 3%, scendendo sotto tale soglia oggi per la prima volta dallo scorso 10 agosto. Ancora peggio è andata alla scadenza dei 2 anni, passata dal -0,07% a più dell’1%. Pensate che siamo l’unico paese, oltre alla Grecia, a offrire rendimenti superiori allo zero per i biennali.

Da quando la BCE ha iniziato ad acquistare bond sin dal marzo di 3 anni fa, essa è stata l’acquirente marginale unico dei nostri BTp. Ancora fino alla fine di agosto, Francoforte rastrellerà titoli di stato italiani per un controvalore mensile di 4,5 miliardi di euro e dal mese prossimo per la metà, azzerando gli acquisti dalla fine di dicembre. Per quanto l’effetto della minore domanda sia stato ampiamente scontato dal mercato, senza un ritorno alla fiducia degli investitori istituzionali i rendimenti non potranno che salire e con essi il costo di rifinanziamento del nostro debito pubblico, una montagna immensa di quasi 2.330 miliardi di euro. Per la BCE di Mario Draghi, questo scenario sta diventando una bella gatta da pelare. Se i prezzi dei BTp collassassero nei prossimi mesi, a seguito della sfiducia dei mercati per il nuovo governo “populista” a Roma, l’Italia rischia una nuova crisi dello spread come nel 2011, quando l’allora governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni per spegnere l’incendio finanziario. Il rischio di un contagio verso le altre economie della periferia dell’Eurozona (Grecia, Portogallo, Spagna, etc.) diverrebbe alto e l’euro tornerebbe nel mirino dei mercati. Sarà un caso, ma contro il dollaro è sceso da 1,25 a 1,15 in pochi mesi, sostanzialmente in coincidenza con le elezioni politiche italiane e le trattative di governo seguite.

Cosa fare per evitare un simile scenario? Oltre alla “moral suasion” sul governo, magari facendo leva sui più miti Giovanni Tria ed Ezio Moavero, rispettivamente ministri dell’Economia e degli Esteri, non si potrebbe. Ed ecco che, in assenza di una risposta politica coordinata e chiara da parte di Bruxelles, il cerino resterebbe in mano a Draghi, il quale disporrebbe di diverse opzioni possibili. Una consisterebbe nell’annunciare il prosieguo del QE, magari adducendo ragioni macro, come un’inflazione di fondo debole e a sua volta sorretta proprio dagli stimoli monetari, nonché le incertezze globali, non ultime quelle legate alla vicina Turchia. La mossa aiuterebbe i BTp a riprendere fiato, visto che per diversi altri mesi non verrebbe meno la domanda di cui hanno potuto godere negli ultimi anni.

LEGGI ANCHE:   Gli investimenti sicuri a breve termine

In alternativa, Draghi potrebbe “costringere” il governo italiano a chiedere la sua assistenza tramite l’”Outright Monetary Transactions”, un piano messo a punto nell’estate del 2012 e che punta a sostenere i bond in crisi. Perché non è mai stato attuato e nessuno nel governo avrebbe intenzione di richiederlo in caso di necessità? Esso presuppone il rispetto di un decalogo di riforme somministrato dalla BCE, cosa che avrebbe tutto il sapore di un commissariamento dell’Italia. Del resto, non sarebbe nemmeno pensabile che Francoforte aiutasse un paese senza ottenere almeno il rispetto di linee-guida essenziali in politica economica.

Senza QE e OMT, l’esplosione dei rendimenti dei BTp porterebbe con ogni evidenza alla perdita di accesso ai mercati finanziari del Tesoro. A quel punto, scatterebbe il default per l’impossibilità dell’Italia di onorare le scadenze imminenti, un’eventualità che farebbe il paio con lo scenario ancora più temibile di un’uscita dall’euro.

Credibilmente, nessuno a Bruxelles e Francoforte vorrà arrivare a tanto, visto che la rottura dell’Eurozona ne segnerebbe la fine. Per questo, man mano che la crisi dei nostri bond dovesse degenerare, aspettiamoci una BCE più accomodante nei toni, per quanto non compiacente sul piano politico con Roma. C’è tutta la sensazione che la vera partita si giocherà a settembre e agli inizi di ottobre tra Italia e Commissione europea per arrivare a una legge di Stabilità quanto più fiscalmente responsabile possibile, anche al costo di concessioni evidenti da parte della seconda.

Tags: BtpEconomia e finanza Europaeuro
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