Le azioni sono titoli di partecipazione al capitale di rischio di una società. Esse assegnano al titolare il diritto di voto in assemblea, potendo così influire sulla vita gestionale societaria. Inoltre, gli azionisti hanno anche il diritto di percepire un dividendo sulla base dell’utile distribuito dal management.
In realtà, non tutte le azioni sono uguali, presentando differenze atte ad attirare diverse categorie di investitori.
- Le azioni ordinarie sono quelle appena descritte, pur in estrema sintesi, per cui chi le detiene può esercitare il diritto di voto in assemblea (ordinaria e straordinaria), nonché attingere al dividendo.
- Le azioni di risparmio, invece, consentono al titolare di godere di un dividendo maggiorato, ma in cambio questi viene escluso dal diritto di voto in assemblea. Si tratta di una categoria di titoli destinata perlopiù ai piccoli investitori, i quali sono raramente interessati al voto, molto di più, se non esclusivamente, a percepire un dividendo.
- Le azioni privilegiate sono così definite, in quanto i suoi titolari godono di un qualche privilegio, come la possibilità di attingere al dividendo prima che questi venga distribuito agli azionisti ordinari, oppure di recuperare il dividendo non distribuito nel caso di assenza di utili negli esercizi precedenti. Tuttavia, le emissioni di azioni privilegiate sono consentite dalle norme fino a un massimo del 50% del capitale sociale.
Una volta emesse, le azioni possono essere negoziate sul mercato. Stiamo parlando delle negoziazioni in borsa, che quotidianamente nel mondo avvengono per migliaia di miliardi di dollari. Il prezzo a cui vengono acquistate emerge dall’incontro tra domanda e offerta, similmente a quanto avviene per qualsiasi altro titolo finanziario o bene fisico o servizio. Sappiamo quanto i movimenti speculativi nel breve periodo tendano spesso ad allontanare i prezzi dai fondamentali. Sorge allora spontanea la domanda di quale sarebbe il prezzo giusto per acquistare un’azione. Partiamo subito da una premessa: il prezzo di un’azione dovrebbe rispecchiare la capacità della società che le ha emesse di produrre utili in futuro. Poiché la vita di un’impresa è tendenzialmente illimitata, il calcolo da effettuare dovrebbe tenere conto degli utili attesi da qui ai prossimi “n” anni. In altre parole, le azioni dovrebbero quotare a prezzi pari al Valore Attuale Netto, suddiviso per il numero dei titoli circolanti. Il VAN è a sua volta dato dal rapporto tra la somma degli utili attesi per ciascun esercizio futuro al numeratore e il tasso di sconto applicato al denominatore.
In questo calcolo, ci troviamo dinnanzi a svariati problemi. Il primo riguarda quale sia l’utile atteso. Dobbiamo prendere il considerazione quella maturato di recente o quello prospettico? Ed eventualmente, quest’ultimo sulla base di quali dati? Si consideri, ad esempio, una società legata all’e-commerce come Amazon, che tende a registrare una crescita esplosiva del fatturato e dell’utile netto da trimestre a trimestre. Difficile capire quale sarebbe l’utile “di equilibrio” futuro, anche perché non siamo in grado di prevedere con esattezza cosa possa accadere, di positivo o di negativo, al comparto economico di appartenenza o alla singola impresa. Colossi giudicati intramontabili fino a pochi anni prima sono finiti a gambe per aria, non essendo stati in grado di tenere il passo con la nuova realtà emersa dal boom tecnologico e dalla globalizzazione. Si veda il caso di Kodak. Viceversa, nessuno avrebbe scommesso un dollaro su Apple a metà degli anni Novanta, quando stava per chiudere battenti, mentre oggi è la società che più capitalizza in borsa al mondo.
Altro problema deriva da quale tasso di sconto applicare per determinare il VAN. Esso dovrebbe essere il costo-opportunità sostenuto dall’investitore, ovvero la remunerazione che otterrebbe nell’investire in un asset privo di rischio. Sostanzialmente, potremmo prendere come riferimento il rendimento di medio-lungo termine esitato dai titoli di stato, ma questo non è costante nel tempo, dipendendo dalle condizioni dei mercati finanziari, nonché dalle politiche monetarie messe in atto.
Aldilà di tutte queste considerazioni, emerge che il valore delle azioni risulta correlato negativamente con i tassi d’interesse. Quando questi ultimi salgono, le quotazioni azionarie scendono e viceversa. Ciò avverrebbe proprio per l’effetto “deprimente” che un tasso più alto avrebbe nel calcolo del VAN, nonché per la maggiore concorrenza che esso condurrebbe a un investimento rischioso come quello in azioni. In pratica, una cosa sarebbe che un bond a 10 anni mi offrisse l’1%, un’altra che mi desse il 4%. In questo secondo caso, inizierò a pensare che mi convenga optare per il comparto obbligazionario, molto meno rischioso e con flussi di reddito certi.
Un modo pratico per capire se un’azione sia o meno sopravvalutata sarebbe di monitorare il suo “price-to-earning” ratio o anche P/e. Esso è il rapporto tra il prezzo del titolo a una certa data e l’utile per azione. Per quest’ultimo si può prendere come riferimento quello certo esitato dall’ultimo bilancio d’esercizio approvato, oppure quello annualizzato risultante dall’ultima trimestrale o ancora quello atteso dai principali analisti per l’esercizio in corso. Più il rapporto è elevato, maggiori sono gli anni che ci vorrebbero per giustificare sulla base degli utili il prezzo pagato. Se un’azione mi vale 30 euro e l’utile per azione risultante dall’ultimo esercizio con bilancio approvato fosse di 60 centesimi, significa che il P/e ratio sarebbe di 50, ovvero che mi servirebbero 50 anni di utili per ripagarmi l’investimento effettuato. Capovolgendo il rapporto, ovvero monitorando l’e/P si ottiene il rendimento azionario, che nel nostro caso sarebbe del 2%. Bene, se le alternative sul mercato obbligazionario fossero minori, male se risultassero decisamente superiori.
E il P/e ratio della specifica società dovrebbe sempre essere confrontato con quello esibito dalle principali competitor o dall’insieme del comparto. Ciò anche per il fatto che non esiste un rapporto di massima uguale per tutte le realtà aziendali, dipendendo la capacità di generare utili in rapporto al capitale dal settore in cui si opera. Se verificassi, ad esempio, che il P/e per una data azione fosse di 25 contro una media del comparto di 20, evidentemente la società in questione tenderebbe a maturare minori profitti rispetto alle quotazioni attuali, che appaiono ingiustificatamente alte, tranne che il mercato non stia comprando in previsione di una crescita attesa degli utili superiore a quella media del mercato. Viceversa, un P/e relativamente basso segnalerebbe che le azioni sarebbero poco comprate, ovvero che vi sarebbero spazi di crescita. In ogni caso, si consiglia sempre di monitorare il P/e ratio storico del comparto e della singola società, cosa ormai possibile grazie agli indici presenti sul web.
Restando nel linguaggio borsistico, avrete sentito parlare di “orso” e “toro”. Sono i due animali, che segnalano rispettivamente una fase negativa e positiva per i corsi azionari. Si definisce fase orso o “bearish” quella che vede i prezzi di una data azione o di un intero indice scendere di almeno il 20% rispetto al picco toccato di recente. Se, invece, la discesa è compresa tra il 10% e il 20%, si parla più semplicemente di “correzione” del mercato. Al contrario, si ha una fase “bullish” quando le azioni corrono, allontanandosi dai minimi recenti.
Quando si investe in azioni, si ha un duplice obiettivo: realizzare la massima plusvalenza nel minimo tempo possibile derivante dalla vendita a prezzi superiori di quelli di acquisto. Il dividendo rappresenta una percentuale risibile dei guadagni maturati dall’investitore in un dato periodo, semmai funge da fonte di attrazione per i capitali. In realtà, si è benissimo in grado di realizzare guadagni potenzialmente elevati anche quando le azioni scendono di prezzo, ovvero speculando al ribasso (“short selling”). Come? Vendendo a terzi e a un certo prezzo un titolo che ancora non si detiene, facendoselo prestare da un broker o promettendogli la consegna entro una certa data. Se il prezzo del titolo effettivamente scende, la scommessa viene vinta e l’investitore avrà venduto (in anticipo) a una quotazione superiore a quella a cui avrà acquistato le azioni. Se accade il contrario, incorre in perdite, potenzialmente illimitate, visto che non esiste un tetto massimo teorico per la salita del prezzo di un titolo.
A parità di tutto il resto, il prezzo delle azioni di una società rispetto a tutte le altre potrebbe dipendere dalla contendibilità o meno del suo controllo. Se una quotata è in mano a un investitore per l’80% del capitale e solo il restante 20% è effettivamente “flottante libero”, ovvero azioni libere di essere acquistate e rivendute, il mercato troverà scarsi impulsi per puntare sul titolo, visto che non ha modo di influire sulla gestione della società, non potendo nemmeno in potenza ambire a detenere la maggioranza del capitale. Viceversa, se il capitale è polverizzato tra una miriade di piccoli investitori, una “scalata” (“take over”) sarebbe possibile e ciò indurrebbe il management attuale a perseguire la massima efficienza nella gestione, al fine di non deprimere i corsi azionari e rischiare di essere mandato a casa da un nuovo assetto proprietario. E’ quella che in finanza è nota anche come “disciplina del mercato”. Non a caso, grosse aziende familiari, pur quotate in borsa, si mostrano generalmente meno efficienti delle “public companies” concorrenti.