Le obbligazioni sono titoli di credito, che assegnano al possessore il diritto di riscuotere le eventuali cedole periodiche distribuite dall’emittente e il rimborso del valore nominale indicato alla scadenza. Contrariamente alle azioni, quindi, non coinvolgono il titolare nella gestione della società che le emette, in quanto qui il rapporto è di credito-debito e non proprietario. Sono emesse da società private, così come enti pubblici nazionali e sovranazionali e in questi ultimi casi prendono anche il nome di titoli di stato. Nella denominazione inglese, sono note come “bond”. I soggetti emittenti sostanzialmente s’indebitano nei confronti di chi acquista tali obbligazioni, che rappresentano per loro a tutti gli effetti passività finanziarie.
Come qualsiasi debito, anche le obbligazioni presentano per il creditore un grado di rischio, segnalato dal rating di cui gode l’emittente. Le agenzie di valutazione principali (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch) forniscono, a tale proposito, al mercato un loro giudizio sulla solidità dei titoli emessi. A seconda di quale esso sia, le obbligazioni vengono definite solide o “investment grade”, oppure speculative o “non investment grade”, anche note come “junk” o “spazzatura”. E’ evidente che il mercato richiederà nel secondo caso rendimenti maggiori di quelli offerti dai titoli più sicuri, in quanto maggiore sarà il rischio corso nel comprarli.
Dunque, più alto il rating, minore il rendimento, a parità di ogni altra considerazione. In verità, concorrono anche diversi ulteriori fattori a determinare il rendimento di un’obbligazione o titolo di stato, come le variazioni attese del tasso di cambio in cui il titolo viene emesso e il rischio Paese. Non è un caso che i soggetti emittenti finanziariamente più deboli e/o con sede in economie percepite più a rischio tendano a collocare sul mercato obbligazioni in valuta straniera “pesante” (dollari, euro, sterline, yen, etc.) per attirare capitali stranieri e tenere i rendimenti sotto controllo, anche se questa politica rischia spesso di rivelarsi un boomerang nel caso di andamento avverso dei tassi di cambio entro la scadenza del titolo.
Abbiamo parlato di rendimento e non semplicemente di tasso o cedola. Già, perché le due espressioni non sono sinonime. Il mercato guarda più al primo che non al valore percentuale della cedola, che individua unicamente il tasso annualmente corrisposto dall’emittente agli obbligazionisti. Tuttavia, questi ultimi percepiscono un guadagno anche sulla base del prezzo pagato all’acquisto dell’obbligazione in fase di collocamento o successivamente, sul mercato secondario. Vediamo di spiegarci meglio.
All’atto dell’emissione, un bond viene collocato sul mercato “alla pari” o “sotto la pari” o “sopra la pari”. Nel primo caso, il prezzo a cui verrà rimborsato alla scadenza coinciderà con quello versato dall’investitore-acquirente, per cui rendimento e cedola coincideranno. Nel secondo caso, il prezzo pagato risulta inferiore a quello che verrà incassato, per cui l’investitore otterrà un margine di guadagno superiore alla cedola, dato dalla differenza di prezzo rapportato al valore nominale alla scadenza e suddiviso per il numero degli anni alla scadenza. Molti emittenti sono soliti attirare capitali offrendo obbligazioni a prezzi inferiori a quelli di rimborso alla scadenza. Infine, se l’obbligazione viene emessa sopra la pari, l’investitore sta pagando il bond più di quanto non gli verrà rimborsato alla scadenza. Quel plus, rapportato al valore nominale del titolo e sempre suddiviso al numero degli anni mancanti alla scadenza andrà sottratto alla cedola annuale, per cui il rendimento risulterà inferiore ad essa.
Riepilogando:
- obbligazioni emesse alla pari, rendimento uguale alla cedola;
- obbligazioni emesse sopra la pari, rendimento inferiore alla cedola;
- obbligazioni emesse sotto la pari, rendimento superiore alla cedola.
Attenzione, perché sinora abbiamo immaginato che la cedola annualmente distribuita dall’emittente sia fissa. In realtà, spesso viene agganciata a parametri predeterminati, ovvero a indici finanziari o all’inflazione. In questo secondo caso, l’intento evidente è di preservare il potere di acquisto dell’investitore, specie nelle fasi rialziste dei prezzi. Ad esempio, un bond può essere collocato sul mercato con cedola semestrale dello 0,5% e maggiorata del tasso d’inflazione ufficiale del semestre precedente dell’economia o area in cui ha sede la società emittente. In questo modo, la cedola funge da tasso minimo garantito.
E sottolineiamo come un’obbligazione possa essere acquistata non solo all’atto della sua emissione (asta o mercato primario), bensì sul mercato secondario, ovvero dalle negoziazioni quotidiane tra privati. Infatti, se il prezzo del bond sale, posso decidere di mettere a segno il guadagno, vendendolo a terzi. A tale proposito, va detto che i rendimenti e i prezzi si muovono in direzione opposta: quando i primi salgono, i secondi scendono e viceversa. Infatti, se un’obbligazione diventa più costosa, significa che devo spendere di più per acquistarla rispetto al prezzo che mi verrà rimborsato alla scadenza, per cui il rendimento sta scendendo. Al contrario, se il prezzo scende, a salire sarà proprio il rendimento.