Il dividendo è la parte dell’utile che una società quotata in borsa distribuisce ai soci. Esso è frutto generalmente di una politica fissata all’interno del piano industriale, che contiene gli obiettivi di “pay-out”, ovvero la quota percentuale dell’utile maturato nell’esercizio. Se il piano fissasse bel 40% il pay-out per il triennio successivo, ciò significa che la società s’impegna a distribuire il 40% dell’utile registrato in ciascuno dei tre esercizi successivi, eventualmente fissando un limite minimo (o anche massimo) per ciascuna azione. Non è nemmeno detto, poi, che un esercizio si chiuda necessariamente in attivo, potendo registrare perdite. In quel caso, il consiglio di amministrazione avrebbe più strade da percorrere: rinunciare a distribuire il dividendo, prendendo atto dei risultati economici; distribuire ugualmente il dividendo, attingendo alle riserve degli utili; annunciare la distribuzione di uno “scrip dividend”, ovvero consentire agli azionisti di scegliere tra un dividendo cash o l’assegnazione gratuita di azioni di nuova emissione.
Chiaramente, ai fini della valutazione dell’appetibilità di un titolo, è necessario confrontare il valore del dividendo distribuito con il prezzo vigente delle azioni. Se una società decide di erogare 10 centesimi di euro per ciascuna azione e il prezzo di quest’ultima viaggia attualmente intorno a 1,50 euro, la remunerazione del titolo risulta pari al 6,7% (0,10/1,50). In sé, il prezzo del titolo non è slegato dal dividendo annunciato o atteso dal mercato, proprio perché le quotazioni riflettono le aspettative sugli utili maturati e distribuiti. A parità di pay-out, infatti, ogni variazione dell’utile d’esercizio o del trimestre si ripercuoterebbe nella distribuzione del dividendo, per cui il titolo tenderebbe a salire o a scendere.
Se la società decidesse di distribuire un dividendo più basso di quello precedentemente annunciato o rispetto alle attese del mercato, la reazione immediata del titolo sarebbe negativa, ma nel tempo questa politica potrebbe pagare, se l’utile risparmiato fosse investito per accrescere i profitti futuri o per ridurre l’indebitamento finanziario, specie in previsione di un rifinanziamento a costi maggiori, come avviene tipicamente nelle fasi rialziste dei tassi.
C’è un legame tra rendimenti obbligazionari e dividendi? In teoria, vi sarebbe. Azioni e obbligazioni sono due comparti finanziari in competizione tra di loro. In genere, l’investitore si trova ad optare per l’uno o l’altro sulla base del profilo di rischio. Più si è contrari ad assumersi rischi, maggiore la propensione a investire in obbligazioni e viceversa. Tuttavia, nelle fasi di ottimismo sull’economia si diffonde una maggiore propensione al rischio, che spinge gli investitori a puntare più sulle azioni che sui bond. Ciò innalza i prezzi delle prime e fa scendere quelli dei secondi, con la conseguenza che la remunerazione offerta dal capitale di rischio tende a diminuire, mentre i rendimenti obbligazionari tendono a crescere. Infatti, a parità di dividendo distribuito in valore assoluto, una cosa è che i prezzi delle azioni siano bassi, un’altra che siano più alti. Nel secondo caso, il dividendo inciderebbe di meno sull’investimento effettuato, ovvero si percepirebbe una remunerazione minore.
E, però, a smuovere il mercato è proprio il rendimento di un investimento, per cui salendo quello obbligazionario e scendendo quello azionario, gli investitori si sposterebbero dalle azioni verso le obbligazioni. Subendo la pressione del mercato, le società quotate potrebbero reagire aumentando il pay-out e distribuendo, quindi, una percentuale maggiore di dividendi per non fare fuggire gli investitori o attirarne di nuovi. Viceversa, in un ambiente di bassi rendimenti, la pressione sarebbe inferiore e il mercato si accontenterebbe, quindi, anche di dividendi bassi rispetto al prezzo vigente delle azioni.