Le opzioni call (call options) sono contratti derivati, che assegnano al possessore la facoltà, ma non l’obbligo, di acquistare un determinato titolo alla scadenza pattuita e al prezzo prefissato (“strike price”), dietro il pagamento di un premio al venditore. Si tratta di scommettere sull’andamento del prezzo dell’asset sottostante, confidando che quello concordato con il venditore risulti inferiore a quello vigente sul mercato. In questo caso, infatti, l’investitore avrebbe convenienza ad esercitare l’opzione di acquisto, perché si aggiudicherebbe il titolo o l’attività a un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato. L’opzione call può essere esercitata solo alla scadenza nel caso dei contratti di tipo europeo, entro la scadenza per quelli di tipo americano.
Questo tipo di contratto ha alla base due motivazioni possibili: di protezione dai rischi (“hedging”) o speculative. Nel primo caso, l’investitore cerca di ripararsi dal rischio di un aumento dei prezzi, nel secondo scommette su di esso al fine di ottenerne un guadagno.
Quando il prezzo di esercizio dell’opzione call risulta inferiore a quello di mercato, abbiamo che essa sia “in the money”. Se, invece, i due prezzi dovessero coincidere, l’opzione sarebbe “at the money”, mentre se il prezzo di esercizio risultasse superiore a quello di mercato, siamo nel caso “out of the money”.
Ora, è certo che un’opzione call “out of the money” si risolverà in perdita per l’investitore, il quale non avrà alcuna convenienza ad esercitarle la facoltà di acquisto e subirà come perdita il premio versato al venditore. Lo stesso dicasi nel caso di un’opzione “at the money”, che lascia l’investitore indifferente tra l’esercitare o meno il diritto di acquisto, ma dovrà, in ogni caso, sostenere il costo del premio, che si tradurrà parimenti in una perdita. Il beneficio non è garantito nemmeno nel caso di un’opzione “in the money”, che si rivela essere il più favorevole all’investitore, risultandogli conveniente esercitare la facoltà di acquisto. Tuttavia, se il premio versato sarà superiore alla differenza positiva tra prezzo di mercato e prezzo di esercizio, ugualmente l’investitore subirà una perdita, pur avendo tutta la convenienza ad esercitare l’opzione per minimizzare l’onere netto.
Facciamo un esempio per capire meglio di cosa parliamo. Immaginiamo che Tizio ritenga che le azioni della società X siano destinate a salire di prezzo e pattuisca con Caio un contratto di opzione call a 90 giorni, pagandogli un premio di 0,10 euro per ciascuna delle 10.000 azioni sottostanti, ovvero per complessivi 1.000 euro. Le parti concordano uno “strike price” pari a 15,00 euro. Allo scadere del contratto, le azioni X valgono 15,50 euro, per cui a Tizio converrà esercitare la facoltà di acquisto, perché così sborserebbe 150.000 euro (15,00 x 10.000) per portarsi a casa titoli dal valore attuale di mercato di 155.000 euro e che potrebbe anche rivendere all’istante, realizzando un margine lordo di 5.000 euro (155.000 – 150.000). Avendo sborsato 1.000 euro per pagare a Caio il premio, il suo margine netto (escluse imposte ed eventuali commissioni) sarebbe di 4.000 euro. Dunque, l’operazione si è rivelata essere “deep in the money”, ovvero decisamente favorevole all’investitore.
Se alla data di scadenza, il prezzo delle azioni risultasse pari a 14,70 euro, Tizio non avrebbe alcuna convenienza ad esercitare l’opzione di acquisto, altrimenti spenderebbe 150.000 euro per entrare in possesso di azioni dal valore di mercato pari a 147.000 euro, ovvero perderebbe 3.000 euro, oltre ai 1.000 già spesi per il versamento del premio. Peraltro, quest’ultimo costo viene sostenuto indipendentemente dal buon fine o meno dell’operazione.
Come si può capire, le opzioni call si traducano in un modo per scommettere al rialzo sul prezzo di un’attività sottostante. Se numerosi investitori stipulassero questo tipo di contratto in relazione a un titolo azionario, obbligazionario, un tasso di cambio, etc., evidentemente le aspettative del mercato sullo stesso sarebbero rialziste e ciò accrescerà il valore del premio richiesto per acquistare la facoltà di esercizio dell’opzione call, per la legge della domanda e dell’offerta, riducendo i benefici massimi potenziali, anche perché il solo segnale di aspettative positive tenderà ad aumentare il prezzo del titolo sottostante.
Ragionando al contrario, al venditore di un’opzione call converrà che il prezzo di mercato risulti inferiore a quello di esercizio concordato, perché così avrà incassato con certezza il premio e non dovrà sostenere alcun onere per acquistare titoli sul mercato a prezzi superiori a quelli a cui potrà rivenderli alla controparte. Viceversa, la sua perdita risulta essere tendenzialmente illimitata nel caso in cui si ritrovasse costretto ad acquistare sul mercato titoli a prezzi notevolmente superiori a quelli concordati. Se la differenza superasse il premio incassato, l’operazione si sarà rivelata negativa sul piano finanziario. E poiché non esiste alcun limite alla crescita dei prezzi di un titolo, il rischio sarebbe per il venditore, appunto, indefinitamente alto, contrariamente ai guadagni, che al massimo coincideranno con il premio incassato.