I titoli di stato sono obbligazioni emesse da enti sovrani e che mostrano un funzionamento del tutto simile a quelle private. Essi costituiscono debiti per chi li emette e crediti per chi li sottoscrive all’atto della loro emissione o li acquista sul mercato secondario. Infatti, i bond possono essere negoziati anche sui mercati regolamentati, ovvero scambiati tra soggetti privati, una volta che sono stati collocati dal Tesoro alle aste (mercato primario). Essi offrono una cedola periodica, generalmente semestrale o annuale, ma non per le scadenze inferiori all’anno all’atto della loro emissione. Queste sono anche note come Buoni ordinari del Tesoro (BoT), la cui durata varia da un minimo di 1 mese a un massimo di 12 mesi.
I titoli di stato, come del resto le obbligazioni private, non si limitano ad offrire una cedola all’investitore, ma vengono emessi spesso a un prezzo diverso da quello nominale di rimborso alla scadenza. Se al di sopra di quest’ultimo, si parla di emissione sopra la pari, per cui il rendimento risulta inferiore al tasso cedolare annuo, visto che l’investitore risulta pagare una somma superiore a quella che gli verrà rimborsata. Se l’emissione avviene sotto la pari (prezzo di emissione/acquisto inferiore a quello di rimborso), il rendimento dell’investimento sarà superiore al tasso offerto dalla sola cedola.
Il rendimento di un titolo di stato ne segnala il grado di rischio percepito sui mercati finanziari, ovvero capta la solidità fiscale del soggetto emittente, vale a dire dello stato. A tale proposito, un servizio fondamentale lo assolvono le agenzie di rating, che assegnano a ogni bond sovrano un giudizio, espresso in lettere dell’alfabeto, che varia da un massimo “AAA” (tripla A) a un minimo di “D”, che sta per “default” e individua un soggetto insolvente. I giudizi delle principali agenzie di rating (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch) si mostrano in grado di influire sui livelli dei rendimenti esitati dalle operazioni di collocamento, fungendo da guida per il mercato. Essi sono “investment grade” fino a quando non segnalano il rischio reale, in condizioni avverse, che lo stato non sia in grado di onorare le scadenze, per i quali casi rientriamo nell’ambito dei bond speculativi o “spazzatura” (“junk”), noti formalmente come “non investment grade”. Nel caso di S&P, l’agenzia di valutazione più rinomata al mondo, l’ultimo giudizio di investment grade è pari a “BBB-“.
Fatte queste minime premesse, spieghiamo adesso cosa sia lo Spread, un termine inglese che abbiamo iniziato tristemente a conoscere nel 2011, quando esplose la crisi dei BTp (Buoni del Tesoro poliennali). Dicevamo che il rendimento di un titolo di stato ne segnala il grado di rischio percepito sui mercati. Tuttavia, occorre avere un titoli di riferimento o “benchmark” per capire quanto questo rischio sia relativamente alto. Nel caso dell’Eurozona, l’area dei 19 stati che adottano l’euro come moneta nazionale, sono i Bund emessi dalla Germania a fungere da banco di prova per tutti gli altri bond. Perché? In primis, perché trattasi del debito della prima economia europea; secondariamente, perché godono della tripla A come rating da parte di tutte le agenzie di valutazione. Ebbene, lo spread segnala il differenziale di rendimento di un titolo di stato con una certa scadenza rispetto a un titolo tedesco con la medesima scadenza. In genere, l’indicatore di cui sentiamo parlare in TV, sulla stampa e sul web fa riferimento alla differenza tra i rendimenti decennali italiani e quelli tedeschi, ovvero allo spread BTp-Bund a 10 anni.
Dire che lo spread italiano sia di 240 punti base rispetto alla Germania significa che i nostri titoli di stato con durata decennale offrono il 2,4% in più di un omologo tedesco. Perché lo spread viene segnalato solo con riferimento ai rendimenti tedeschi e non, ad esempio, dei titoli del debito americano o Treasuries, pur essendo gli USA la prima economia del mondo? Semplice, perché questi ultimi sono espressi in una divisa – il dollaro – diversa dal nostro euro, per cui poco senso avrebbe paragonare un BTp e un Treasury di pari durata, in quanto il differenziale di rendimento capterebbe anche le variazioni attese del cambio. Infatti, a metà del 2018, un decennale italiano continua a rendere meno di un decennale americano, ma evidentemente non per il fatto che l’America sia percepita meno sicura dell’Italia sul piano della sostenibilità del debito, quanto al fatto che il cambio euro-dollaro per i prossimi anni è atteso in aumento, ovvero i titoli del debito emessi nell’Eurozona e in euro tendenzialmente si rivelerebbero allettanti per gli investitori stranieri, grazie all’effetto cambio, indipendentemente dal resto.