Gli “swaps” sono contratti derivati, che sui mercati finanziari hanno iniziato a fare la loro comparsa agli inizi degli anni Ottanta. Come gli altri prodotti derivati, il loro obiettivo consiste principalmente nel preservare un investimento da possibili rischi, anche se molto spesso si punta più sulla speculazione, ovvero a sfruttare la direzione attesa dei prezzi o dei tassi sottostanti per ottenere un beneficio economico. Uno dei contratti swap maggiormente in voga è quello che riguarda i tassi d’interesse. Sul mercato, esistono due tipologie di debitori: quelli che prendono in prestito denaro a tasso fisso e quelli che si espongono a tasso variabile. Ai primi converrebbe che i tassi di mercato salissero, perché così potranno dire di avere fatto un affare contraendo debiti a tasso fisso; ai secondi, al contrario, converrà che i tassi scendano, perché potranno risparmiare sul pagamento degli interessi. Ne consegue che i debitori a tasso fisso vorranno tutelarsi dal rischio di una discesa dei tassi, mentre quelli a tasso variabile intendono ripararsi dal rischio di un rialzo dei tassi. Gli swap sono contratti che, a certe condizioni, consentono loro di proteggersi dai rispettivi rischi. Vediamo come.
Immaginiamo di essere un imprenditore e di avere stipulato un debito con la banca per 1 milione di euro al tasso fisso del 3% e per 10 anni. Immaginiamo anche che un altro imprenditore abbia stipulato un debito sempre per 1 milione di euro e a scadenza decennale, ma a tasso variabile, ipotizzando che esso sia pari all’Euribor a 1 mese + 3%. A questo punto, il primo troverà conveniente che i tassi salgano, il secondo che scendano. Come potranno mettersi d’accordo per regolare con reciproca convenienza le loro posizioni? Il primo riceverà periodicamente (ogni anno, per semplicità di calcolo) gli interessi variabili dal secondo, mentre il secondo percepirà dal primo gli interessi fissi. Supponiamo che dopo un anno dalla data di stipulazione del contratto swap, l’Euribor a 1 mese sia pari al -0,2%. Il tasso variabile sarà del 2,8% (3% – 0,2%). Dunque, il debitore a tasso fisso riceverà come pagamento dalla controparte il 2,8% del milione di euro di valore nozionale sottostante, ovvero 28.000 euro. A sua volta, dovrà versarne 30.000 (3% su 1 mln) al secondo. Dunque, l’operazione al termine del primo anno si sarà risolta in perdita per il debitore a tasso fisso (-2.000 euro) e in guadagno per il debitore a tasso variabile (+2.000 euro). E’ naturale che fosse così, visto che i tassi di mercato risultano essere scesi sotto il 3%. A proposito, chi riceve interessi a tasso variabile, offrendo alla controparte quelli a tasso fisso, è detto investitore “long”, ovvero rialzista. Chi riceve gli interessi a tasso fisso ed eroga quelli a tasso variabile è, invece, detto investitore “short” o ribassista. In effetti, il primo scommette su un rialzo dei tassi, il secondo su un calo.
Procedendo con l’esempio, supponiamo che al termine del secondo anno, l’Euribor a 1 mese risulti salito all’1%. Dunque, il debitore a tasso fisso riceverà pagamenti a tasso variabile per 40.000 euro (1% + 3% su 1 mln), mentre dovrà continuare a versare al debitore a tasso variabile i soliti 30.000 euro. Risultato: il primo avrà registrato un saldo positivo di 10.000 euro (40.000 – 30.000), il secondo uno negativo per la stessa somma. Per capire chi alla fine ci abbia guadagnato o meno, bisognerà sommare i flussi finanziari incassati e quelli pagati nell’arco del periodo. Nel caso in cui i tassi aumentano, chi si era indebitato a tasso variabile subirà sì l’aggravio, ma ricevendo in cambio flussi pari al tasso fisso. Se i tassi scendono, chi si era indebitato a tasso fisso potrà godere di flussi in entrata pari proprio agli interessi variabili, per cui anch’egli minimizzerà le perdite.