Sulla stampa finanziaria, siamo solito sentire parlare di “vendite allo scoperto” perlopiù nei casi in cui la Consob emana un provvedimento per vietarle su un determinato titolo e per un dato periodo. Ma di cosa si tratta nel concreto? Con l’espressione, il cui corrispondente inglese è “short selling” o “vendite corte”, s’individuano quegli investimenti realizzati per speculare al ribasso sul prezzo di un titolo o attività. Facciamo una premessa. Se tutti scommettessero solo sul rialzo dei prezzi, nessuno lo farebbe sui cali, ovvero vi sarebbero solo investitori pronti ad acquistare nelle fasi positive sui mercati, mentre nessuno credibilmente vi entrerebbe in quelle calanti, almeno non fino a un certo punto, con la conseguenza che la liquidità crollerebbe nelle fasi avverse e con esse si amplificherebbero le variazioni dei prezzi derivanti dalle singole operazioni di vendita. Insomma, scambi rarefatti e mercati molto esposti agli umori di pochi investitori.
Con le vendite allo scoperto, si ha un modo per cercare di realizzare un profitto anche per le fasi calanti dei prezzi. Vediamo come funziona. Un investitore crede che il prezzo di un titolo sia destinato a diminuire e lo vende a terzi, pur non possedendolo. Vi chiederete come faccia a vendere qualcosa che non ha. Due le strade percorribili: si fa prestare i titoli da un intermediario finanziario (“broker”) dietro il pagamento di commissioni e/o interessi applicati per il periodo del prestito, oppure vende a terzi con la promessa di fornirgli i titoli entro una certa data e ai prezzi concordati. Nel primo caso, dovrà cercare di acquistarli sul mercato per restituirli al broker, nel secondo per consegnarli all’acquirente. Quando la vendita allo scoperto avviene senza la disponibilità materiale dei titoli, si dice anche che essa sia “nuda” (“naked”).
Ora, se entro la data prefissata per la restituzione o la consegna, il prezzo del titolo effettivamente diminuisce, il venditore allo scoperto maturerà un profitto, derivante dalla differenza tra il maggiore prezzo di cessione e quello di acquisto. Siamo in presenza di una situazione anomala per una operazione finanziaria, ovvero di ricavi (certi) anteriori ai costi (incerti). A tale margine dovranno sottrarsi le commissioni e/o gli interessi dovuti al broker.
Tuttavia, può anche accadere che la scommessa venga persa, ovvero che dal momento in cui avviene la cessione a quello in cui si realizza l’acquisto, il prezzo del titolo salga, anziché scendere, infliggendo perdite potenzialmente illimitate all’investitore.
Facciamo un esempio per capire nel concreto come funziona questo meccanismo. Tizio vende allo scoperto 1.000 titoli azionari della società X a un prezzo di 5,00 euro ciascuno, incassando 5.000 euro. Egli, però, non possedeva tali azioni, per cui ha dovuto farsele prestare da un intermediario, dietro un interesse annuale del 3% sul valore dei titoli prestati. Immaginiamo che il contratto tra il broker e l’investitore sia di 90 giorni, termine entro cui bisognerà riconsegnare le azioni. Se entro la scadenza il prezzo di queste risulterà sceso, per ipotesi, a 4,50 euro, Tizio le comprerà per 4.500 euro, pagherà all’intermediario un interesse di circa 37,50 euro e avrà realizzato così un profitto netto (imposte e commissioni escluse) di 462,50 euro (5.000 – 4.500 – 37,50).
Tuttavia, non è detto che la scommessa venga vinta. Immaginiamo che la società X sia oggetto di scalata da parte di un’altra società e che il prezzo delle sue azioni s’impenni a 13,00 in poche settimane. Se Tizio non avrà fatto in tempo a rastrellare i titoli man mano che crescevano di valore in borsa, magari confidando in una futura discesa per effetto del fallimento dell’OPA, si ritroverà alla scadenza a spendere 13.000 euro (13,00 x 1.000) per acquistare titoli, per i quali ha incassato solo 5.000 euro. Inoltre, dovrà pagare anche gli interessi al broker, per cui per lui l’operazione si sarà rivelata una gigantesca perdita di oltre 8.000 euro sui 5.000 di ricavi iniziali, ovvero pari al 160% l’investimento.
Non è un caso che molti investitori restino scottati dalle vendite allo scoperto, anche se la demonizzazione che si fa spesso tra i non addetti ai lavori di questa tipologia di investimento appare non solo eccessiva, ma persino infondata. Il Regolamento UE n.236/2012 ha vietato le vendite allo scoperto “nude” sui titoli di stato europei e sui “credit default swaps”, introducendo l’obbligo di comunicazione per quelle realizzate sulle azioni delle società quotate nei casi in cui il valore sia almeno pari allo 0,2% del capitale sociale e per ogni successiva variazione dello 0,1% di quest’ultimo. Inoltre, vige l’obbligo di pubblicazione delle posizioni corte, quando queste raggiungono lo 0,5% del capitale sociale. Anche sulle azioni nella UE vi è il divieto di vendita allo scoperto non assistita da disponibilità materiale dei titoli.