Soltanto una decina di anni fa, prima che scoppiasse una delle peggiori crisi economiche della storia del mondo moderno – e dalla quale non ci si è ripresi completamente, considerando alcune dinamiche poco convincenti, le politiche ultra accomodanti delle banche centrali che sostengono i mercati – la rivoluzione dell’OCSE in termini fiscali era qualche cosa di impensabile. Poi, dopo il fallimento di Lehman Brothers, tutto è cambiato…
All’origine di questo improvviso cambio di politica in ambito fiscale a livello globale, con l’attacco frontale nei confronti dei cosiddetti paradisi fiscali, possiamo sicuramente collocare la crisi statunitense, che ha spinto la superpotenza ad assumere un atteggiamento molto aggressivo verso i paesi che hanno permesso, fino a quel momento, ai contribuenti USA di commettere – per la verità assai ingenuamente – il reato di evasione fiscale.
Potremmo recriminare al riguardo, ritenendo che se soltanto le consulenze fossero state più accorte, utilizzando strumenti per realizzare una pianificazione fiscale sì ottimale, ma decidendo di aprire una società offshore e usare altre opporunità disponibili non in un’ottica di pura evasione, ma di elusione, tutto questo non si sarebbe verificato in modo così veloce e semplice, com’è sostanzialmente successo.
L’azione dell’OCSE, infatti, è stata sicuramente guidata dal nuovo corso intrapreso dagli Stati Uniti, i quali sono stati spalleggiati in questo nuovo approccio anche dall’UE e dal G20: e quello che oggi viene nominato come Common Reporting Standard, CRS, è stato realizzato sulla falsariga del FATCA, quell’accordo sostanzialmente imposto dal paese nordamericano praticamente a tutte le giurisdizioni del mondo.
Nel caso del Foreign Account Tax Compliance Act, del resto, si è avuta la più chiara deriva del nuovo corso illiberale statunitense, che punta ad imporre la volontà di sapere tutto sulle attività detenute dalle US Person all’estero, pur tuttavia non fornendo in contropartita alcuno scambio di informazioni: potremmo quindi definire questo come un accordo monolaterale, dove gli USA ricevono e non danno alcunché.
Almeno da questo punto di vista, il CRS dell’OCSE fortunatamente non abbraccia questa curiosa ratio legis (negli Stati Uniti non vi sono infatti particolari obblighi di reporting per gli asset detenuti dai clienti esteri presso intermediari finanziari), imponendo almeno la reciprocità nello scambio di informazioni in materia fiscale negli accordi sottoscritti secondo questo standard, permettendo peraltro agli stati contraenti di sospendere l’applicazione dell’accordo nel caso venga disatteso questo principio.
E all’interno di questo contesto globale mutato, esistono tuttavia ancora delle opportunità per continuare a beneficiare della protezione dei propri asset, oppure, per mantenere un certo livello di anonimato sulle proprie attività, senza contravvenire alle disposizioni: per non incorrere tuttavia negli errori del passato commessi da chi ha fornito consulenze troppo sbrigative e ha confidato nel fatto che lo status quo potesse durare all’infinito, è tuttavia importante poter contare sulla professionalità di un attore di mercato che conosce trattati internazionali e norme nazionali.
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